L'ospedale piemontese
Maurizio Sorvillo
La storia è sempre la stessa: prima ti costruiscono con un sacco di aspettative, ti arredano con un sacco di letti e macchinari sconosciuti, ti riempiono di poveri cristi che non ti trattano tanto bene loro malgrado e infine, quando non servi più, ti abbandonano senza nemmeno un ringraziamento.
Scusate lo sfogo, ma nascere come ospedale psichiatrico non è proprio un bel destino. Tanti colleghi ora abbandonati, palazzi settecenteschi come me, erano ville padronali, teatri, musei, condividiamo la stessa sorte è vero però, in vita, loro hanno vissuto nello sfarzo e circondati dal bello. Io invece nasco alla fine del ‘700 come collegio militare per i figli degli ufficiali, per tantissimi anni ho sentito solo ordini secchi, marce e lo sgradevole odore del rancio che saliva dalla mensa.
Speravo sinceramente in un futuro più roseo, in qualche svolta che mi facesse cambiare aspetto, che mi desse una vita più tranquilla. Invece, nei primi giorni del 1871, per volontà dell’autorità provinciale, fanno il loro ingresso i primi due malati di mente. Ero diventato a tutti gli effetti un manicomio. Vi potete immaginare lo shock, tutte le mie aspirazioni naufragate!
Bastano pochi anni ed i pazienti sono più di quattrocento, e all’inizio della Prima Guerra Mondiale sono più che raddoppiati. Nelle mie stanze riecheggiano solo le urla strazianti dei matti, i comandi dei guardiani, gli ordini dei medici. Non c’era, a quei tempi, nessuna discriminazione su chi doveva varcare il mio ingresso, indigenti, vecchi dementi, orfani, personaggi pericolosi, tutti finivano per stare nei soliti spazi.
Il carico da novanta lo mise il dott. Oscar Giacchi, direttore del manicomio fino al 1907. Lui pensava che la malattia mentale derivasse da una sproporzione tra il volume del cervello e del cranio, per questo eseguiva interventi chirurgici sperimentali. Sono tristemente famoso anche per questo, ero diventato il centro dove la lobotomia ed altre discutibili pratiche chirurgiche erano all’ordine del giorno.
Dopo i primi anni di comprensibile disorientamento, ho iniziato pian piano a soffermarmi sulle storie dei miei malati, ascoltavo i racconti a volte sconclusionati, gli aneddoti raccontati in modo surreale, sono diventato inconsapevolmente partecipe del loro dolore, della loro sofferenza. Non ero più triste e sconsolato per il destino avverso, all’opposto cercavo di dare sollievo a queste anime sfortunate, regalando un po’ di calore nelle giornate fredde od ombra e refrigerio nelle calde estati.
Alla fine, sono stato felice della mia vita, essere stato d’aiuto nel mio piccolo mi ha fatto sentire utile, felice.
Ho ancora dei sogni nonostante mi abbiano abbandonato, vorrei ascoltare di nuovo delle voci, ma non di malati sofferenti, di bambini che giocano, di ragazzi e ragazze che ascoltano musica, che si scambiano confidenze, di genitori felici che fanno progetti per il futuro.
Oggi non sono triste perché so che, a volte, i sogni si avverano.
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