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Il mondo in un formaggio

Caffè e formaggio, ci sta? Certo! Il Kaffeost, diffuso in Svezia e Finlandia, è l’abbinamento di un formaggio locale con una tazza di caffè bollente

Talvolta dagli errori nascono capolavori.

È il caso del formaggio, per esempio il gorgonzola: pare che attorno al 900 d.c., un pastore che passava per la città di Gorgonzola, abbia mescolato, per sbaglio, del latte cagliato con dell’altro latte cagliato, dando vita al delizioso gorgonzola odierno.

Il formaggio è parte delle mie abitudini, da che io ricordi. Un’abitudine che ho sempre dato per scontata. Da bambina, preparavo sempre la tavola per tutta la famiglia, assieme alle mie sorelle, dato che i miei erano impegnati al lavoro fino a poco prima di pranzo o cena. I miei genitori mi avevano addestrata bene: dovevo portare in tavola anche il contenitore di plastica che nascondeva magie, i formaggi. I miei volevano che togliessi il contenitore dal frigo prima di iniziare il pranzo o la cena, così che i formaggi potessero raggiungere la temperatura ambiente, per quando ce li saremmo goduti, rigorosamente a fine pasto, in stile dessert.

Così, sono cresciuta con la convinzione che i frigoriferi di ogni casa italiana contenessero formaggi.

I miei genitori prediligevano sparatutto cosiddetti formaggi “di montagna”: dentro il contenitore magico non mancavano mai l’Asiago, quello fresco, dal sapore dolce e delicato, simile a panna, a quello stagionato, dal sapore più deciso. Il Mezzano, originario del Trentino, dalla Val di Fiemme e del Primiero, mio papà lo prendeva di varie stagionature. Ma quella che prediligeva, dopo ogni pasto, era la forma più stagionata, dal sapore intenso, quasi pastoso in bocca, leggermente piccante. Ricordo che lo assaggiavo a scaglie, attratta dal suo sapore insolito e dal colore caldo, aranciato, che mi sembrava così lontano dalla mia idea di formaggio “bianco”. Altro formaggio di montagna a far da compagnia ai miei pasti era il Vezzena: originario delle malghe di Lavarone, Vezzena e Folgaria, nella provincia di Trento, ma anche dal comune vicentino di Enego. Da adulta, ho scoperto che questo formaggio, granuloso e saporito, è stagionale: si realizza solo con il latte estivo di malga, da giugno a settembre. Ed ha pure un storia affascinante: in passato, era l’unico formaggio concesso per condire le zuppe e i canederli, tipici delle aree trentine.

Anche i formaggi, hanno una storia. Mi chiedo: sono i formaggi che ho mangiato?

Di sicuro, sono le scelte alimentari dei miei genitori. Nati entrambi sulle colline vicentine, frequentatori delle montagne e delle malghe venete, dove non mancavano mai di portare noi figlie la domenica, ne hanno conservato con sé il sapore, tramite i formaggi  che ci facevano trovare a tavola.

Da adulta, ho perso la raffinatezza (e praticità!) del porta-formaggi, nel mio frigo, ma ne ho mantenuto la passione. Che anzi, si è affinata.

Da poco ho ri-scoperto l’Asiago fresco in un supermercato vicino casa. È stata una madelaine proustiana, nella bocca: assaporarlo, sentirlo nel palato come panna morbida che si scioglie, mi ha riportato ai giorni dell’infanzia. Ai picnic sui prati di Asiago, con il pane appena sfornato preso all’alba in un panificio per strada, e il suo ripieno gustoso di asiago e sopressa (salume tipico vicentino, che si scioglie letteralmente tra le labbra, a mo’ di finocchiona toscana).

L’incontro con altre culture mi ha avvicinata ad altri tipi di formaggio, ad altri usi: per esempio, in Albania il formaggio è un po’ come il pane in Italia. Nei pasti, non esiste la suddivisione in antipasto, primo, secondo, dessert. A tavola ci si siede per un pasto unico, composto da vari piatti, e al centro può regnare un formaggio bianco, tipo feta, chiamato djathë (che vuol sire semplicemente “formaggio”), oppure un formaggio di colore più giallognolo, kaçkavall (parola che deriva dal nostro “caciocavallo”), simile al pecorino. In molti ristoranti locali albanesi, viene servito del kaçkavall crudo o fritto, gratuitamente, prima che i piatti principali siano pronti. E la feta, come la intendiamo e conosciamo noi, la fa da padrona lungo tutti i Balcani: ricordo quella colazione ad Instabul, dove avevo passato una notte come scalo per il Libano, in cui l’albergo mi ha fatto trovare, all’alba, un bel piatto con della feta, accompagnata da olive e pomodori succosi.

Ho conosciuto albanesi che, per quanto vivano in Italia da decenni, non rinunciano a un pezzo di feta tutti i giorni, andando alla ricerca della feta “più vicina”, come sapore, alla feta con cui sono cresciuti in Albania – senza mai trovarla davvero…

E poi ci sono io, veneta di origine e nomade per scelta, che voglio ritrovare un pezzetto di infanzia nell’asiago che mangio da adulta. O che mi avvicino a formaggi che durante altre fasi di vita erano solo piccole comparse, e che ora, in questa mia fase di vita milanese, sono più presenti: come  la zola, che mi è stata proposta, per la prima volta, appena sbarcata a Milano, nella combinazione “torta salata con radicchio e zola”. Mi sono dovuta far spiegare, umilmente, che la zola altro non è che il gorgonzola – che in Lombardia si fa femmina.

Chissà in quante altre cose si può fare, una vita intera, nei suoi incontri con i vari formaggi del mondo. 

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