Un puro aderire alla vita
C’è un percorso del dolore che attraversa le generazioni. Esistiamo da molto prima di nascere. Mi chiedo che cosa resti della libertà. - Mariapia Veladiano
Verusca Costenaro
Le mattine sono pulite. Sono il principio di un nuovo giorno tutto da creare.
Le mie mattine sono la calma del mare che attende le onde, piatto e silenzioso.
Le mie mattine, le faccio decantare piano, come si fa con il vino.
Gli unici segni del mio mattino, sono quelli dell’alfabeto, che si fa vita e storie e sussurri e voci all’interno dei romanzi che accompagnano le mie colazioni.
Mi faccio accompagnare da un libro, a colazione. Punto la sveglia dopo 15 o 20 minuti massimo, a seconda degli impegni che mi attendono, e in quei momenti non esisto più nella fisicità della mia stanza, ma nel mondo di fantasia che una persona ha creato per me che leggo.
Il tempo si ferma, la mente si placa, il cuore si assetta su un ritmo regolare. Pace. L’unico rumore è il cucchiaio che scava nella ciotola, alla ricerca di un po’ di yogurt con le ciliegie (le mie colazioni tendono a essere stagionali, e ora che è tempo di ciliegie, me le godo a pezzetti dolci dentro lo yogurt greco).
Ho bisogno di questo momento solo per me, per riprendere contatto con la realtà. Lentamente, con dolcezza, tramite la parola scritta, che racconta silenziosa. Rientrare dentro il mondo sovraccarico di stimoli senza un libro, senza l’incontro – sano – con la lettura – è come un dolore fisico, per me. Il dolore che mi provoca non seguire il mio modo di essere, di approcciarmi alle giornate con i miei ritmi personali. Ogni colazione, dunque, ha un sapore diverso, a seconda del cibo che scelgo come primo nutrimento, a seconda del romanzo che incontro.
Un romanzo che ho incontrato di recente è Il tempo è un dio breve di Mariapia Veladiano. Un incontro travolgente, passionale, intriso di magnetismo, che mi ha lasciata stordita, affranta, eppure ricolma di scoperte e gratitudine.
Mariapia Veladiano, l’avevo conosciuta con Adesso che sei qui. Un’altra storia che aveva lasciato in me un segno, quasi fisico: una donna malata di Alzheimer, dipinta con toni lievi, sussurrati, tenui, quasi giocosi. Un modo nuovo, inedito, originale di raccontare la malattia. Non nelle sue brutture, ma nella sua levità, nella leggerezza, nel lasciarsi andare alla vita, come quando ci si lascia andare, di schiena, verso l’abbraccio di chi ci coglierà senza farci cadere, affidandosi, con la fiducia che chi ci accoglierà è lì, a un passo da noi.
Mariapia Veladiano ha il dono di narrare la vita con profondità, nei temi, e nel linguaggio.
Il tempo è un dio breve narra una storia potente. C’è tanto dolore dentro, c’è il male. Eppure c’è anche tanta luce.
C’è il bene, c’è tanto amore – tra uomo e donna, che non funziona, che funziona, che tracima. C’è l’amore di una madre per il figlio, che porta luce:
Tommaso è mio figlio. Per lui io sono qui.
È la luce. La luce non può essere nascosta.
Per questo io racconto.
Per condividere la luce.
Certo ci vuole ordine nel raccontare. L’ordine è una forma d’amore. Tutto mi sembra una forma d’amore. È l’amore che ci dà forma.
Un amore, quello per il figlio, che è onda che travolge ogni altro pensiero della vita. Esiste solo lui, solo lui – e qui mi ispiro allo stile di Veladiano, che tra le pagine del libro non lesina le ripetizioni, parole o frasi, ripetute come in un canto, il canto dell’amore, che si culla in sé stesso, una filastrocca, una nenia perpetua. Un linguaggio mai usato a caso, ma plasmato con la cura e la pazienza di una artigiana delle parole. Una lingua acuta, che preme, implora, incalza, incanta. Un linguaggio che si fa (canto) divino.
Un amore, quello per il figlio, quello per l’uomo amato, che potremmo definire, prendendo a prestito le parole dell’autrice, chiarezza geometrica. Stato di preghiera.
E la preghiera è protagonista tra le pagine. Dio è una presenza silenziosa, ricercata. Per sopravvivere agli accidenti della vita. Agli imprevisti che non lasciano pace. Dio allora si fa pace. Diventa il confidente, colui a cui affidarsi. Una storia, quella di Veladiano, che non è diretta solo a chi crede. Le lotte della vita, le vive sia chi crede, che chi non crede. Nel romanzo, Dio si fa metafora di qualcosa di più grande – uno spazio, un tempo, un linguaggio – a cui affidarsi: Noi possiamo solo affidarci. E accogliere questa nostra vita restituita. È questa la fede, leggiamo.
Il dolore anche, è protagonista tra le pagine. Si fa umano: un marito incapace di amare, un figlio con una malattia. Il dolore è il pensiero della morte che incombe. L’angoscia di non riuscire a proteggere fino in fondo chi si ama.
Qual è la risposta al dolore? Ne esiste una?
L‘amore, forse, che nel romanzo ri-appare inaspettato e incredulo, e riapre alla vita, nel corpo, nel pensiero?
Oppure la vita stessa, che alla fine è più grande del dolore, e lo contiene?
Mi piace pensare che una risposta al dolore sia la fede che diventa affidamento, fiducia, in senso ampio, incarnata nel personaggio di Marguerite, nel suo approccio alla vita, che la protagonista descrive così:
Se potessi, ora vorrei studiare il segreto di questa serenità di Marguerite. Mi sembra che riuscire a viverla anche solo per poco basterebbe a dare senso a qualsiasi vita. Si tratta di abitare il presente accettandolo come qualcosa che è sempre importante, di essere liberi dall’ansia di un progetto che ci trascina in avanti o dal blocco di una paura per ciò che può accadere o che ci tiene immobili […] Un puro aderire alla vita.
La risposta al dolore, forse, è un puro aderire alla vita.
Il tempo è un dio breve richiama la vita. Richiama alla vita. È necessario alla vita. È un romanzo che parla all’universo intero, nella sua varietà: perché, alla fine, la ricerca di un Dio, di un senso ultimo, dell’amore in ogni forma, riguarda ogni persona.
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